Ops, I did it again: ho partecipato a un concorso pubblico

concorso pubblico addetto stampa

Non so perché lo faccio, ogni volta mi dico che sarà l’ultima, eppure quando vengo a sapere di un concorso pubblico per l’assunzione di un giornalista in qualità di addetto stampa ci provo sempre.

E’ più forte di me: compilo tutti i moduli per benino, combatto contro la vocina che mi dice che “tanto sanno già chi prenderanno”, alimento con tutte le mie forze quell’altra che mi ripete che “magari stavolta non è così”.

Non è una cosa strana che si sappia già chi verrà scelto al termine di un simile concorso pubblico. E c’è poco da scandalizzarsi. Le istituzioni e gli enti sono obbligati per legge a fare queste selezioni pubbliche, a emanare un bando e pagare una commissione perché trovi un motivo o un altro per rimandare al mittente i concorrenti indesiderati. Ma è comprensibile. E’ normale che un soggetto che ha bisogno di un addetto stampa preferisca assumere una persona di cui già si fida, dal quale sarebbe disposto a farsi guidare bendato in luoghi sconosciuti.

L’addetto stampa sarà il prete a cui tu azienda, istituzione o personaggio pubblico confiderai i tuoi più turpi peccati, sicuro che non li rivelerà. Sarà l’avvocato che ti consiglierà cosa dire e quando stare zitto. Sarà il tuo ambasciatore con il mondo esterno e il tuo scudo nei confronti delle minacce interne. E’ normale che tu voglia conoscere chi ricoprirà questo ruolo, a maggior ragione se sei un’istituzione pubblica e politica (vista l’aria che tira). Epperò bisogna fare il bando pubblico. E ogni volta ci casco, “perché non si sa mai”.

Così l’altra mattina parto libera e felice per il mio colloquio di lavoro. Mi ero preparata sull’ente che metteva in palio l’incarico, ma il giusto. Sono convinta, infatti, che il lavoro non sia mai esattamente quello che ti aspetti e che ogni volta dovrai modularlo sulla situazione e sulle persone con cui hai a che fare. Ciononostante se hai fatto un po’ di esperienza di ufficio stampa per realtà diverse (istituzioni pubbliche, personaggi politici, aziende, festival e così via), dovresti esserti dotato degli strumenti che ti consentono di affrontare qualsiasi imprevisto. Ovvero: aver maturato la consapevolezza dei tuoi limiti, il coraggio di sfidarli e l’umiltà per chiedere aiuto nelle situazioni più incresciose.

In più: vi ricordate quel film in cui un carcerato viene sottoposto a periodici colloqui per capire se sia pronto per la libertà vigilata? Ogni volta racconta di quanto abbia capito e imparato, di quanto si senta riabilitato. E lo rispediscono dietro le sbarre. Un giorno dice che non gliene frega più niente di uscire e che la sua vita è lì dentro. E lo mandano fuori. Ecco, quella mattina mi sono sentita così e mi sono detta: sai mai che quando sono meno motivata mi assumono?

La prima cosa che è stata spiegata a me e ai malcapitati colleghi di colloquio di lavoro pubblico è stata che la valutazione era già stata fatta, su base curricolare. I colloqui non avrebbero smosso niente, ma avevano pensato di dare un’opportunità a noi di conoscere loro. Grazie.

Fosse stata una mattina qualsiasi a quel punto avrei girato i tacchi, ma invece sono rimasta. Perché non cogliere l’opportunità di conoscerli? E’ proprio vero che il colloquio di lavoro più assurdo che mi sia mai capitato è quello che devo ancora affrontare.

Così ho aspettato pazientemente il mio turno e sono entrata. “Ci parli di lei”. Ovvero l’equivalente della domanda a piacere. Quella che pregavo il signore che non mi facessero all’esame di maturità, quella che è stata il mio incubo all’università. La domanda a piacere. Qui è naufragato il mio entusiasmo. E ancora una volta uscendo mi sono detta: mai più.

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