C’è un tempo per tutto, ma non è quello che pensiamo

tempo per fare le cose

Qualche giorno fa sono andata a correre lungo il fiume. Erano i primi di gennaio ma sembrava primavera. C’erano due margherite sulla sponda. Lì per lì mi hanno fatto pena, ho pensato che la loro vita sarebbe stata breve: povere illuse, ma non le avete viste le previsioni del tempo? Tra poco arriva il vento del Nord, la vostra esistenza è segnata, siete fuori tempo.

Poi mi sono guardata in giro: e certo che le ho capite le due margherite, era una giornata magnifica. Il cielo completamente azzurro, il silenzio pressoché totale dei giorni di festa. Avrei scelto anch’io un’esistenza breve, pur di vivere una giornata così.

Passiamo la vita a inseguire obiettivi, scadenze, deadline che ci siamo autoimposti. Abbiamo limiti di età per ogni cosa: per studiare (non troppo a lungo), per fare carriera (attorno ai 30 anni, sennò sei un fallito), per fare figli (anche oltre i limiti biologici), per innamorarci (non troppo in là che sei ridicolo), per divorziare (idem), per pensare a noi stessi (costrutto che di solito si accompagna a un “finalmente”, a indicare che ce ne potremo occupare solo dopo aver messo a posto tutte le precedenti incombenze). Per definirci dobbiamo barrare una casella tra 25 e 34 e tra 35 e 44 e così via. E chiederci costantemente se abbiamo diritto di starci o è una cittadinanza scomoda, perché non abbiamo portato a compimento ciò che era richiesto da quello stato.

Ma se perfino la natura va contro il naturale corso delle cose e finisce fuori tempo, perché dovremmo preoccuparci di rispettare delle caselle? Forse è vero che c’è un tempo giusto per fare le cose: quello in cui ci va di farle.

In copertina: Out of Continuum, 2006, Scarlett Hoof Grafland

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