Per convincere il vostro peggior cliente armatevi di forchetta. Lo dice la scienza

convincere clienti a tavola

Dove portereste a cena il vostro più acerrimo nemico, per farlo capitolare? E qual è il momento più opportuno del pasto per sottoporre una richiesta al vostro cliente più restio? Spesso si crede che sia sufficiente bere un bicchiere o due in compagnia per spingere una trattativa. Invece il cibo, anche secondo la scienza, ha la capacità di porre basi più solide per un rapporto di fiducia. D’altronde il pasto è un’esperienza che coinvolge i 5 sensi e influenza le nostre scelte, come ha provato il “gastrofisico” Charles Spence.

Affidarsi all’alcol può avere i suoi vantaggi nell’immediato, ma ha anche i suoi rischi. Ad esempio quello di non riuscire a stare dietro al ritmo di beva dell’interlocutore (fatto), di ritrovarsi meno lucidi, più disposti a cedere nelle proprie posizioni e soprattutto non ricordarsi di averlo fatto il giorno dopo (fatto, fatto e fatto).

Non molti riconoscono al cibo il potere occulto e mistico che possiede. Ma ce l’ha e lo dice anche la scienza. Recentemente, in uno dei più miei più classici momenti di follia, ho fatto da cavia per una indagine scientifica condotta dal Laboratorio sensoriale dell’Università di Firenze. Il titolo era troppo curioso per non partecipare: Gusti e facce.

La sfida (poi capirete perché la chiamo così) era quella di assaggiare una batteria di campioni trasparenti ma dal gusto diverso, indicando l’intensità del sapore in una scala da “non percettibile” a “il più forte che si possa immaginare”. L’assaggio era seguito dalla comparsa sul monitor di un volto sconosciuto: le facce si susseguivano una dopo l’altra assalendoti dal buio dello schermo e costringendoti a indicare se potevi fidarti di loro e in quale misura. Nessuna era particolarmente rassicurante, ma soprattutto era difficile concentrarsi sui particolari, nella frazione di secondo in cui potevi guardarle.

Assaggio dopo assaggio ho cominciato a capire una cosa: che fosse acido, amaro o dolce, più il sapore del campione era intenso, più era alto il mio livello di guardia verso le facce. Riuscivo a notare più dettagli del volto, ricordavo se lo avevo già visto in precedenza durante il test e talvolta anche il “voto” che gli avevo assegnato.

Durante il test non ho mai smesso di chiedermi quale potesse essere lo scopo di una ricerca così particolare. A cosa può servire misurare quanto il cibo che abbiamo nel piatto influenza la fiducia in chi abbiamo di fronte? Forse a capire dove portare a cena il tuo peggior nemico per convincerlo a trattare. O cosa far mangiare al tuo cliente più restio alle novità per fargli mandar giù una nuova strategia.

Ve lo preannuncio: lo scopo della ricerca dell’Università di Firenze non era questo.

Ma da allora ho cominciato a fare la mia indagine parallela, analizzando le cene consumate negli ultimi mesi con amici, clienti, colleghi. E ne ho tratto una conclusione empirica: più il cibo nel piatto era equilibrato, più il mio interlocutore era ben disposto nella conversazione. Indipendentemente dalla velocità con cui svuotava il bicchiere.

In mesi di durissima esperienza sul campo ho capito che la pulizia del gusto può farti ottenere più credito rispetto all’effetto wow, ma anche che provare qualcosa di innovativo al palato e al tempo stesso rassicurante porta a una maggiore disponibilità e confidenza.

Lo scopo della ricerca scientifica non ve lo svelo (dovrete indagare da soli), ma un consiglio ve lo posso dare: armatevi di una lista di ristoranti affidabili (io ne ho già fatta una) e aspettate il dessert prima di tirare fuori il contratto.

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