L’insostenibile bigottismo delle serie Made in USA

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Qualche tempo fa mi è capitato di riguardare qualche puntata di Ally McBeal, serie Made in USA. Ve la ricordate? Un tempo la adoravo. Più o meno quando andavo alle medie. Vi ricordate anche l’Era Glaciale? Ecco, in quel periodo là Ally McBeal era molto divertente. Rivedendolo adesso ho pensato: ma veramente? Veramente si può passare una vita a ripensare al primo amore dell’asilo, al piccolo bacio rubato, alla fantasia che è essa stessa il tradimento?

Non voglio sdoganare il tradimento, ma la vita è molto più complessa e fantasiosa di così. Per fortuna, direi.

Poco tempo fa, invece, mi sono appassionata a un’altra serie Made in USA: In Treatment. Ho fatto l’errore di cedere a Now Tv dopo anni pandemici di strenua resistenza, a emergenza finita (ma anche lettore dvd finito, relegato all’Era del Bronzo). Mi sono abbonata per guardare And Just Like That, lo confesso, altra serie Made in USA in cui confidavo molto, dopo sei gloriose stagioni. Non ve la spoilero, non ci pensate nemmeno. Ho troppo rispetto per i fan di Sex & The City come me. Ma è stata la ragione che mi ha fatto capitolare sull’On Demand.

Comincio a vedere In Treatment e mi piace da matti: l’azione non esiste, tutto si svolge nella stanza di un enigmatico psicoterapeuta. Ma cosa c’è di più avventuroso, più sorprendente e morbosamente attraente di quello che avviene nella testa delle persone? E così stare lì ad ascoltarli raccontare è inevitabile e accattivante. Senonché prima scopri che il terapeuta ha bisogno di una terapia. Poi emerge il bigottismo Made in USA: le donne diventano macchiette, in gran parte soffrono di disturbi alimentari o sono state abusate in gioventù (o entrambe le cose), quella che non voleva il figlio in realtà dentro di sé lo voleva e quando si prova a tradire finalmente il buzzurro che ha sposato viene ricondotta alla ragione di madre e moglie, gli uomini fanno tutti i conti con l’immagine da macho trombatore che sono tenuti a rispettare, ma dentro sono anche un po’ gay. Un’infilata di preconcetti che d’improvviso mi ha fatto correre a controllare l’annata della serie in questione.

In Treatment è una serie dei primi anni 2000. E questo spiega un po’ di cose. Peccato, perché sembrava veramente attuale, nelle prime puntate. I dubbi esistenziali, d’altro canto, sono attuali da almeno 2400 anni.

L’unico spiraglio di luce arriva quando finalmente entra in scena il figlio del terapeuta: un rappresentante della generazione di persone che hanno deciso di non farsi incasellare e inseguire un concetto semplice quanto oscuro alla vecchia guardia, la felicità. E’ in quel momento che ho deciso di abbandonare la serie: non volevo che mi rovinassero anche questa speranza.

Il lato positivo: mi è venuta voglia di vedere la versione italiana (perché c’è una versione italiana con Sergio Castellitto di In Treatment, sapevatelo). Nonostante tutti i nostri problemi mentali, secondo me in Italia abbiamo meno preconcetti. Ma forse, nel dubbio, evito di guardare la serie: non vorrei perdere anche questa ultima speranza.

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