Perché Sanremo non è sempre Sanremo

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C’è un modo di dire molto fiorentino che recita così: “erano meglio quell’altr’anno”. Il fiorentino medio lo dice ogni sacrosanto 24 giugno di fronte allo spettacolo più Firenze-centrico che esista: i “fochi” di San Giovanni. La mia fiorentinitas, che di solito tengo nascosta, vuole emergere a questo giro per commentare un altro santo: Sanremo.

Rifuggo da sempre ogni definizione radical del festival di Sanremo. Lo seguo ogni anno con spirito da antropologo culturale. Quelli che ti additano il mattino dopo dicendoti che potevi leggere un buon libro, non trovano nessuna sponda in me. Li oltrepasso con lo sguardo e cerco i miei simili. Perché il bello è ti scopri simile a molti altri. E’ il momento in cui puoi mandare in vacanza tutti i tuoi problemi e addentrarti nel disagio collettivo con spensierata leggerezza. Per una settimana è lecito sfogliare tutte le gallery di tutti i siti di informazione cercando corrispondenza del tuo giudizio al look peggiore, puoi sentirti finalmente parte di una comunità, hai qualcosa da condividere con ogni persona che incontri al bar, puoi addirittura ritrovare lo spirito di socialità e formare un gruppo d’ascolto.

Per almeno 4/5 giorni ti puoi addirittura convincere che “la società è più avanti di chi ci governa”. Puoi pensare che nessuno ti crocifiggerà se sei una donna ma non sei una madre, se sei un uomo ma ti senti una donna, se sbagli la palette di colori eppure avevi un buon armocromista.

Tranne quest’anno. L’incantesimo per me si è spezzato prima di iniziare. Forse il format rinnovato da Amadeus, che aveva realmente portato una ventata di novità, ha esaurito la potenza creativa. O forse la carica di entusiasmo di Fiorello non poteva vincere su un anno un po’ più triste rispetto a quello precedente. Un anno in cui i conflitti che ci toccano da vicino sono raddoppiati, Trump si avvia trionfante verso una nuova tornata elettorale, il Covid è trapassato remoto ma la crisi esistenziale no. Non possiamo nemmeno più credere nella Ferragni, icona di un paradiso perduto in cui eravamo tutti influencer gaudenti su una zattera di vestiti logati.

Sicché bisogna far finta di imbavagliare gli artisti che a loro volta provano timidamente a fare gli artisti. Bisogna alimentare polemiche su frasi che erano già incapaci di smuovere gli animi intorpiditi sul divano. Bisogna almeno far finta di avere una polemica nel sacco sul vincitore morale.

Ridateci Rosa Chemical e il bacio a Fedez, che almeno si poteva parlare un po’ più liberamente di sesso, pure al bar. O ridateci almeno la Ferragni. Ridateci un sogno. Anzi datecene uno nuovo, uno qualunque, a cui aggrapparci per volare un po’ più in alto dei comunicati stampa letti dalla Venier. Che poi a vederle dall’alto le cose potrebbero sembrarci anche più chiare, se non più belle.

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